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La fase due che vorrei

Provando a immaginare la vita dopo la quarantena

Oggi ho provato a immaginare la vita dopo la quarantena, seguendo l’invito di Francesca Folda che qualche giorno fa ci invitava a immaginare un futuro di cui poterci, anche, innamorare.

In particolare, Francesca Folda, giornalista, consulente di comunicazione esperta di innovazione sociale e Director Global Communication di Amani Institute, scrive:

È l’ora dell’impresa.

Si esce dalla crisi entrando in un mondo nuovo. Con tutte le cose che dovremo ricostruire (abitudini, business, relazioni), che cosa vogliamo preservare e che cosa scegliamo di lasciare andare? Ancora più importante, che cosa vogliamo incorporare nella nuova vita, che prima mancava o non c’era abbastanza? Dovremo convivere con il coronavirus per un paio di anni almeno, dicono gli esperti. Con che altro vogliamo vivere negli anni a venire? Contro cosa vogliamo vaccinarci?

Abbiamo bisogno di una idea di futuro che ci faccia superare la perdita e la paura. Abbiamo bisogno di una versione di futuro che ci faccia venir voglia di rimboccarci le maniche per realizzarla.

Il suo invito è quello di essere creativi, nel senso che dobbiamo immaginare, prima, per poi realizzare. E alla fine dell’articolo chiede:

Di quale idea di futuro siete innamorati?

La mia risposta a Francesca Folda, che non conosco anche se mi piacerebbe tanto perchè da lei penso potrei imparare moltissimo, parte dal condividere la consapevolezza che il sogno, la tensione verso qualcosa che si può soltanto immaginare, è alla base per progettare nuovi mondi. Il pro-getto è tale solo se c’è un movimento nello spazio e nel tempo verso qualcosa: se no è solo un lancio nel vuoto.

Questo articolo è quindi un’esercizio di immaginazione. Finora non sono riuscita a raccontare la quarantena se non con qualche post su Instagram e con un hashtag #myfairyquarantine. Come dice Augusto Pirovano di The Good Life nella sua newsletter, non riesco ancora a rielaborare quello che ci è successo, il trauma è ancora in corso e il nostro corpo e i nostri cervelli sono ancora troppo impegnati a sopravvivere. La scelta di affidare a Instagram quel racconto è dovuta alla caratteristica propria di quel social di raccontare storie in frammenti, in mosaici, di immagini e testi. Alle stories, ho deciso di affidare momenti di libertà, un carillon della quarantena, da regalare a chi mi segue.

Anche questo articolo vuole essere un momento di libertà. Sono convinta che davvero solo immaginando una realtà nuova, cioè provando a costruirla nelle nostre menti senza tener conto, per ora, di tutti i vincoli della realtà presente, dei se e dei ma, potremmo trovare strade nuove, che finora non siamo mai stati capaci di vedere (che cosa faresti se non avessi paura? È una delle domande più belle che mi sono posta ultimamente. Immaginare la risposta mi ha portato fino a un nuovo progetto di cui vi parlerò a breve, ma intanto).

In questo pomeriggio soleggiato, in cui la quarantena compie 46 giorni, ho allora deciso di esercitare la mia libertà e ho provato a immaginare la fase due che vorrei. E, così, anche la mia, la nostra vita, dopo la quarantena.

Lo spazio

Nella fase due che vorrei lo spazio pubblico è uno spazio sicuro anche per le donne, possiamo tornare a casa da sole e indossare i calzoncini senza che qualcuno ci importuni. È uno spazio in cui la bellezza, l’arte e la natura hanno ritrovato il loro equilibrio, si rigenerano gli abitati che lo necessitano e si evita di costruire e cementare laddove ora ci sono fiumi, campi, prati e foreste. Lo spazio domestico è ora suddiviso equamente: la cucina è il regno di entrambi, così come il salotto, il bagno e la camera da letto. Durante la quarantena abbiamo imparato a prenderci cura di casa e famiglia non in base al genere, ma in base a quello che ci piace fare di più.

Le strade delle nostre città, da quelle larghe di Milano a quelle strettissime dei paesini, sono percorribili anche dalle persone che per muoversi usano due ruote e nessun motore, che sia una bicicletta o una carrozzina. Sappiamo che mantenere la distanza sarà ancora importante e per questo abbiamo imparato a lasciare il passo sul marciapiede a chi incontriamo, magari anche con un sorriso.

Il tempo

Nella fase due che vorrei il tempo è una risorsa abbondante e condivisa. Riusciamo a fare tutto ciò che vogliamo, e che dobbiamo, senza correre. Non dobbiamo più aspettare il weekend per essere felici, abbiamo finalmente raggiunto un equilibrio soddisfacente tra tempo di lavoro, tempo famigliare e tempo libero. Grazie alle tecnologie sperimentate in quarantena, molte riunioni si spostano online e le possiamo fare dal treno o dal parco giochi o dal divano di casa. Internet è dappertutto, così i fratellini che seguono le lezioni online non devono più litigarsi i dispositivi, perchè possono seguire l’insegnante anche dal cellulare, dalla casa della nonna, dal cortile sotto casa.

Si rispettano gli orari di lavoro, il concetto di straordinario non pagato è scomparso e, dunque, è interesse di tutti concludere i progetti nel tempo stabilito. Abbiamo imparato a essere così più produttivi in un tempo minore, senza stress, perchè abbiamo gli strumenti per farlo e non temiamo ricatti. La nostra vita, ora che scorre più lenta, ci sembra più ricca di affetti, di passioni, di opportunità.

Il corpo

Nella fase due che vorrei il corpo ci rappresenta per quello che siamo. Abbiamo imparato ad accettarne ciò che non ci piace e che ogni sua ruga, ogni cicatrice, ogni neo, ogni curva, racconta qualcosa di noi. Di quell’estate quando abbiamo provato il monopattino e siamo cadute su un terreno pieno di sassi, che sono proprio quei puntini che si intravedono sul lato della caviglia; di quella volta che, andando in giro per Roma senza pensare al sole, ma solo alla bellezza della città eterna, mi sono bruciata le spalle e ora sono piene di le lentiggini; di una torta meravigliosa che ho preparato in quarantena e che, probabilmente, ha contribuito a riempire le mie guance; delle mie spalle forti, per nuotare, per fare yoga, per girare la polenta, per prendere in spagoletta i bambini, per sollevare zaini, da mostrare tra lembi di abiti da cerimonia; del primo capello bianco spuntato chissà perchè una mattina mentre lasciavamo il Messico e ammiravamo l’alba.

Il nostro corpo non è più terreno di una guerra, abbiamo imparato che non si prendono in giro le persone per il proprio corpo, che le foto del corpo nudo di qualcuno non sono oggetto di ricatto, che il corpo perfetto non esiste, che ciò che dobbiamo ricercare non è una magrezza esasperata e le labbra piene dei filtri di Instagram, ma un equilibrio tra ciò che c’è fuori e ciò che c’è dentro. Non andiamo più in palestra se non ci piace e solo perchè è cool e lo fanno tutti, abbiamo riscoperto il valore di prenderci cura del nostro corpo in modo particolare, cioè nostro, che fa bene a noi in quanto esseri unici. Il nostro corpo, la nostra immagine, esprime ciò che siamo e contribuisce a raccontare la nostra storia, che è unica e originale.

Il lavoro

Nella fase due che vorrei il lavoro da casa è rimasto come buona pratica. Andiamo in ufficio solo quando serve, magari il lunedì, per progettare il lavoro della settimana, il mercoledì per fare il punto e il venerdì mattina per chiudere tutto per il meglio. E magari il venerdì a pranzo si fa una bella chiacchierata su com’è andata la settimana e su cosa faremo nel weekend. Durante la quarantena ci siamo accorti che ci sono due tipi di aziende e di imprenditori: ci sono quelli che stanno in piedi come castelli di carta, che non si sono fatti problemi a scegliere la cassa integrazione e che dopo solo due settimane di stop già gridavano al fallimento. Sono quelle aziende e quegli imprenditori che non si sanno assumere il rischio d’impresa e lo fanno assumere ai propri dipendenti.

E poi ci sono quelle aziende e quegli imprenditori che hanno riconvertito le produzioni per aiutare, che hanno anticipato la cassa integrazione, che hanno dato ai propri dipendenti gli strumenti per lavorare da casa, affidandosi e fidandosi delle persone che hanno assunto. Queste aziende, questi artigiani, hanno imparato a usare il digitale per non lasciare soli nemmeno i loro clienti e, infatti, nella fase due che vorrei hanno aumentato il fatturato perchè, come consumatori, abbiamo imparato a riconoscere il valore di quella imprenditorialità italiana che ci fa risollevare dopo ogni crisi. Ai primi, nè noi nè lo Stato dobbiamo più niente.

Abbiamo fatto sì che il lavoro non fosse più una risorsa scarsa, che ai ricatti non ci possiamo stare e che non dobbiamo più accettare stipendi e contratti ingiusti e illegali: abbiamo imparato che abbiamo un valore come lavoratori. Nei nostri team e nei nostri uffici, intanto, abbiamo imparato anche che per molte riunioni è sufficiente una mail e lavorare per obiettivi rende le persone molto più felici, soddisfatte e produttive, per cui siamo passati dal fulltime al fullgoal.

La famiglia

Nella fase due che vorrei mettere su famiglia è più semplice. Il congedo parentale è uguale per le mamme e per i papà. Come suggerisce Donata Columbro nei suoi Appunti per una rivoluzione, condivisi su Facebook qualche giorno fa, abbiamo colto la palla al balzo e abbiamo smesso di dare per scontato che deve essere sempre la mamma a sacrificare il lavoro, un po’ per natura, come se il papà non fosse naturalmente un papà, e un po’ perchè nella maggior parte dei casi guadagna di meno.

In ogni caso, nessuno dei genitori è penalizzato alla ripresa perchè gli asili hanno riaperto rispettando la distanza sociale e fanno didattica all’aperto. Durante l’estate esistono nuove realtà che possono prendersi cura dei bambini, di tutti, sia di quelli le cui famiglie stanno molto bene, sia di quelli le cui famiglie non stanno così bene. Il diritto all’istruzione è stato esteso anche a questi aspetti e a queste fasce d’età.

La scuola

Nella fase due che vorrei la scuola è tornata a essere importante. Nessuno è stato promosso con il 6 politico, ma le lezioni sono ricominciate, all’aria aperta e online solo quando piove e quando non si studiano gli effetti dell’acqua sulla terra e i fenomeni atmosferici. Al fine di non far passare il messaggio che la scuola è una vuota sovrastruttura, che studiare è inutile perchè tanto basta un decreto per vanificare gli sforzi fatti o per rimediare a un primo quadrimestre a zero impegno o a mille difficoltà, il Ministero alla fine ha deciso di permettere a tutti gli studenti e le studentesse di portare a termine gli studi dell’anno scolastico in corso. Ha dato gli strumenti agli insegnanti per svolgere il loro lavoro al meglio e, allo stesso tempo, ha permesso così agli studenti di raggiungere gli obiettivi che si erano preposti.

Perchè a noi, come società, interessa davvero che le giovani generazioni siano in grado di comprendere la realtà, così che possano fare scelte migliori delle generazioni che le hanno precedute. E la scuola è, ancora, il banco di prova di partecipazione e di formazione sociale. Per questo, la sosteniamo, aggiorniamo i programmi facendoli arrivare al 2011, e non, se va bene, alla Seconda Guerra Mondiale, paghiamo di più gli insegnanti e insegniamo agli studenti e alle studentesse a pensare, prima ancora che a imparare la lezione.

La cucina e la spesa

Nella fase due che vorrei cuciniamo ancora la pizza in casa e la consegna di gelato a domicilio è garantita. Facciamo la spesa solo quando serve, preferendo i piccoli produttori alla grande distribuzione. Andiamo a cena nei nostri ristoranti preferiti, che sono quelli che non solo ci fanno mangiare bene, ma che hanno cura della qualità dei prodotti e quando ce ne andiamo ci salutano con un sorriso. Compriamo italiano e di stagione, non ci viene neanche più voglia di fragole a dicembre o di pomodori a febbraio, perchè sappiamo che sono il frutto dello sfruttamento della terra e di persone che sono nate in una parte diversa del mondo.

Lo shopping

Nella fase due che vorrei facciamo shopping in modo più consapevole e solidale. Poichè la ripresa non è stata semplice, complice la chiusura forzata delle attività e la direttiva ministeriale di mettere in cassa integrazione le persone, abbiamo imparato a comprare solo ciò che ci serve. E a fare scelte di qualità, che aiutano le persone, gli artigiani e le piccole attività, che conosciamo e quelle che amano il proprio lavoro. Abbiamo imparato a sostenerci a vicenda.

Ora sappiamo quanto male può fare un mercato globalizzato il cui filo rosso sangue lega noi, seguaci fino a ieri di all you can eat, all you can delivery, all you can buy, e dall’altro la povertà e la devastazione di un mercato come quello di Wuhan, della disperazione delle seimila automobili in fila alla banca del cibo a Sant’Antonio negli USA e le persone schiacciate dalla massa in Kenya durante una distribuzione di cibo in una delle baraccopoli di Nairobi, messe ancora più in ginocchio dalla quarantena.

Abbiamo capito che siamo responsabili di quello che accade dall’altra parte del mondo e, colpevoli, faremo in modo che non accada di nuovo. Diamo la cittadinanza a chi ne fa richiesta, a chi fugge dalla guerra e dalla miseria che abbiamo contribuito a creare, inseguito da armi che abbiamo prodotto e venduto, a chi è qui da anni e chiama i suoi figli con nomi italiani. Abbiamo finalmente capito che essere nati qui, è solo un colpo di fortuna, e che è nostro dovere, in nome di quella fortuna, aiutare chi non è stato così fortunato.

L’amicizia e le relazioni

Nella fase due che vorrei ci telefoniamo o scriviamo ancora per chiederci come stiamo. Perchè la risposta ci interessa davvero. Abbiamo imparato a circondarci solo delle persone che ci fanno bene e non sentiamo più il bisogno di litigare su internet o di caricare le foto delle nostre ex su telegram offrendole al macabro mercato criminale del revenge porn.

Nella fase due che vorrei se siamo ammalati stiamo a casa e non abbiamo paura a chiedere la malattia perchè il nostro datore di lavoro sa che l’ultima volta che qualcuno ha fatto il contrario, c’è stata una pandemia. Nella fase due che vorrei quando incontriamo qualcuno per strada lo salutiamo sorridendo e dicendo buongiorno, come abbiamo imparato a fare durante la quarantena; durante le passeggiate in montagna non getteremo più la carta per terra, come non butteremo più le bottiglie di plastica in mare mentre ce ne abdiamo in giro sul pedalò; e avremo sempre tempo per fermarci a chiacchierare del tempo, delle stagioni, di come sono belle le tue scarpe, di come stanno i tuoi, bene, grazie, a te e famiglia.

I mezzi pubblici

Nella fase due che vorrei i mezzi pubblici sono davvero una figata. Funzionano ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, e ci portano dappertutto; il supplemento bici non esiste più e, per non dare fastidio a chi la bici non la porta, ci sono sempre le carrozze apposite, a tutte le ore e su tutti i mezzi di trasporto. Per garantire la distanza sociale tra le persone ai treni sono state aggiunte carrozze ad autobus e tram aumentate le corse. Essere pendolare non è più una maledizione, ma una condizione normale e, anzi, preferibile.

Istruzione, sanità e terzo settore

Nella fase due che vorrei le persone che abbiamo lasciato da sole durante la quarantena, che in molti casi erano anche quelle più fragili in nome della cui sicurezza abbiamo acconsentito a chiuderci in casa, bambini, anziani, disabili, ecco, queste persone, oggi sanno che hanno qualcuno su cui possono sempre contare. Perchè abbiamo imparato che non possiamo lasciare solo chi ha bisogno, neanche se ci dicono che lo facciamo per proteggerlo. Nella fase due che vorrei le persone che fanno i cosiddetti lavori di prossimità, assistenti sanitari, medici, infermieri, educatori ed educatrici, sono riconosciute per il lavoro che fanno, non vengono più assunte con contratti a zero tutele e i loro settori non sono sempre i primi a essere tagliati.

Tanto, abbiamo smesso di essere invischiati nel mercato delle armi, ci siamo riletti la Costituzione, e l’abbiamo finalmente capita, e abbiamo deciso di istituire task force, composte da un numero eguale di uomini e di donne, per aiutarci a reperire i fondi per quei settori che servono davvero, sanità, istruzione, servizi alla persona, così per la prossima pandemia saremo preparati (e non ci saranno più scuse che è la prima volta, che non lo sapevamo, che è tutta colpa dell’Europa).

Il tempo libero

Nella fase due facciamo ancora i flash mob alle 18:00, usiamo meno l’auto, passiamo più tempo all’aria aperta perchè ci fa bene, riusciamo a dedicare ad attività che ci piacciono almeno un’ora al giorno, non abbiamo più bisogno di urlare parolacce nel traffico, perchè il traffico è molto diminuito.

Poichè lavoriamo da casa e facciamo meno spostamenti, abbiamo più tempo libero tanto che possiamo scegliere se annoiarci, o fare yoga, andare a correre, quando e quanto ci pare. I corsi online hanno funzionato così bene che, quel che si può, arriva ancora in diretta su Instagram alle 17:00. Abbiamo riscoperto la bellezza delle feste in giardino, ci piace così tanto ritrovarci che la domenica i centri commerciali sono chiusi e facciamo delle feste pazzesche. Il non-compleanno è diventato imporante quasi quanto il compleanno vero e proprio.

La sera, si vedono ancora le stelle nel cielo, di giorno, si sentono ancora gli uccellini che cantano. Le farfalle, che riempiono i nostri prati e per cui mi stupivo all’inizio della quarantena, non se ne sono mai più andate.

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Messico, nuvole e scimmie urlatrici

7 cose più una che ho scoperto del Messico durante il nostro viaggio da Città del Messico alla Riviera Maya, passando per Chiapas, Tabasco, Campeche e Yucatan

In Messico siamo arrivati lo scorso 2 febbraio. Siamo partiti dall’Italia che il Coronavirus era ancora una cosa esclusivamente cinese. Siamo tornati due giorni prima che iniziasse il lockdown, dopo aver trascorso quasi un mese tra Messico e Guatemala. Il Messico l’avevamo lasciato ormai da due settimane abbondanti, dopo un viaggio in pullman durato più di dodici ore, tre passaggi di frontiera e due mazzette (ma questa è un’altra storia).

Oggi, che la quarantena compie ufficialmente 40 giorni, mi sembra il momento perfetto per rompere il silenzio sui viaggi passati e raccontare i luoghi più meravigliosi e le scoperte che mi hanno lasciata a bocca aperta di questo Paese che, da solo, è grande quasi quanto l’Europa Centrale (yes, quasi 2 milioni di km quadrati, quasi sette volte l’Italia). Così, magari, ci viene voglia di progettare i viaggi futuri.

Non può quarantenare per sempre.

Se riesci a uscire dall’altro lato di un cenote, probabilmente arrivi in Cina

I cenote sono forse la cosa più straordinaria che abbiamo incontrato nel nostro viaggio in Messico. Sono vere e proprie grotte, la cui apertura è spesso circolare e nascosta tra la vegetazione della giungla, che si sviluppano sottoterra anche per centinaia di metri; piene di acqua dolce, pulita e freschissima, sono spesso abitati da animali come pesci e tartarughe.

Profondissimi, i cenote erano spesso utilizzati dai Maya per i sacrifici umani. Oggi ospitano tour subacquei organizzati e competizioni mondiali di tuffi, come il Cenote Ik Kil, la cui apertura perfettamente circolare lo rende uno dei più spettacolari. I cenote si trovano per lo più nella regione dello Yucatan e nella Riviera Mata, come il Gran Cenote, raggiungibile in bicicletta da Tulum. Ma attenzione: chiudono tutti prima del crepuscolo, attorno alle 16:00, perchè all’imbrunire sono presi d’assalto dagli animali della giungla che scendono alle loro acque per abbeverarsi. Bellissimi!

Le scimmie urlatrici non urlano

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Scimmia urlatrice a Palenque, Chiapas, Messico

Credevo che le scimmie urlatrici fossero rosse e trascorressero la maggior parte del loro tempo impegnate a urlare: aaaaaah! Lo credevo perchè quando ero piccola avevo un libro interamente dedicato a questo animale, con le illustrazioni che mi piacevano tantissimo e le pagine a tratti trasparenti così che a ogni pagina c’era sempre qualcosa da scoprire. In Messico ho scoperto che nessuna delle due cose è vera.

Le scimmie urlatrici, per lo meno quelle messicane, non sono rosse, ma nere; e il loro verso non assomiglia neanche lontanamente a un urlo. Il verso assomiglia a un ruggito, ma forse è più simile a quando quel signore delle televendite riprendeva fiato prima di attaccare con la descrizione della batteria di pentole successiva, avete presente di chi parlo no? La prima volta che l’abbiamo sentito erano le cinque del mattino e noi dormivamo in una cabaña in mezzo alla giungla: non sapevo se essere terrorizzata per quel suono mostruoso o super felice di aver, finalmente, potuto incontrare dal vivo una scimmia urlatrice, una delle protagoniste della mia infanzia. Come potete facilmente immaginare da questa foto, ho scelto la seconda.

Le persone adorano mettersi in fila

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La fila indiana dei turisti sulle scale ripidissime della Piramide del Sole, Teotihuacan, Città del Messico

Nelle prime 24 ore a Città del Messico abbiamo battuto il record delle ore passate in fila. Quattro per entrare alla Casa Azul di Frida Kahlo (su internet troverete che non è necessario prenotare: è una menzogna, fatelo; e assolutamente assaggiate il cocco piccante che servono i baracchini lungo la strada), due in tutto per riuscire a salire in cima alla Piramide del Sole a Teotihuacan e una per riuscire a prendere il pullman che ci avrebbe riportato indietro a Città del Messico.

A stupirci più di tutto è stata l’assoluta tranquillità con cui i messicani affrontano lo stare in fila. A noi la Lombardia ci è salita e ci è scesa subito in tempo record: non abbiamo fatto in tempo a scocciarci che subito un nostro compagno di attesa ci ha offerto un po’ delle sue chapuline, cavallette fritte con succo di lime e salsa di pomodoro. Come si fa a non amare questo Paese e chi lo abita?

È facile incontrare la versione gigante delle piantine dell’Ikea

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Finalmente all’ombra, Palenque, Chiapas, Messico

Credo che la cosa che in assoluto ci ha lasciato più con la bocca aperta è stata la giungla. Soprattutto, i suoi verdi: non credevo potessero esistere così tante varietà di verde. È sufficiente posare gli occhi su qualunque giardino o area erbosa per sentirsi all’istante più rilassati e in pace con se stessi.

E poi, la grandezza delle piante. Prendete il reparto giardino di Ikea, immaginate di essere protagonisti del film Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi e avrete la stessa sensazione che ho provato quando mi sono infilata sotto questa foglia gigante di alocasia. A metà tra Wayne Szalinski e Alice nel Paese delle Meraviglie.

Esiste una laguna dove l’acqua ha 7 colori

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Laguna Bacalar, Yucatan, Messico

La Laguna Bacalar è chiamata dei sette colori perchè l’acqua è così limpida da confondersi con il cielo e da avere sette sfumature di blu. Noi siamo stati poco fortunati e abbiamo beccato una giornata un po’ uggiosa, e forse di sfumature ne abbiamo viste solo quattro o cinque, ma questo non ci ha impedito di rimanere a bocca aperta. Qui, dove seguendo le acque del Golfo del Messico, solo tre secoli fa i pirati arrivavano con le loro grandi navi per dividersi il bottino di scorrerie precedenti nel Mar dei Caraibi, oggi pochi turisti e molti locali amano ritrovarsi al tramonto in una spa a cielo aperto: il fondo limaccioso è infatti ricco di zolfo e l’argilla è riconosciuta come ottimo esfoliante e purificante. In queste acque, vivono tantissime varietà di uccelli, pesci gatto che sembrano usciti da un altro pianeta e, ci hanno detto, qualche raro coccodrillo bianco (che non siamo riusciti a vedere, nonostante il nostro impegno per questo compito che, come potete immaginare dalla fotografia, è stato arduo).

Alle persone piace fare la stessa fotografia

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Due coppie di turisti si fotografano nella stessa posa a Chichen Itzà, Quintana Roo, Messico

Non solo a Pisa, la moda di fare tutti la stessa foto in prospettiva non è solo italiana. Di fronte alla Piramide più grande di Chichen Itzà c’erano più persone in posa nel tentativo di tenere la piramide in mano per postarla su Instagram. La cosa più sorprendente, per me, rimangono in ogni caso le persone che amano fare questo tipo di fotografie e adoro fotografarle.

I colori del Chiapas

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Mercato tessile di San Cristobal de Las Casas, Chiapas, Messico

Il nostro piano iniziale, come sapete non viaggio mai senza un piano ben definito, non prevedeva alcuna sosta in Chiapas prima di Palenque. Ma quando siamo atterrati a Tuxtla Gutierrez, in un areoporto più piccolo della stazione degli autobus di Lampugnano, non abbiamo saputo resistere: i colori dell’altopiano ci hanno da subito conquistato.

San Cristobal de las Casas è la cittadina da cui partono gli autobus per le rovine di Palenque e abbiamo avuto la fortuna di trascorrere due ore a mezzogiorno, l’orario migliore per godere della luce brillante e totale che accende tutti i colori. Abbiamo passeggiato per le sue stradine acciottolate, di fianco a case dai colori pastello. Il luogo che più ci ha colpito è stato il sagrato del Monastero di Santo Domingo, punto di ritrovo delle donne della regione che qui ogni giorno danno vita a uno dei più grandi mercati tessili della zona. Qui abbiamo anche mangiato uno tra i migliori tacos di tutto il viaggio. Con una margarita di tutto rispetto (ah e, altra sorpresa, è la margarita, al femminile).

Messico e nuvole

Il Messico assomiglia senza dubbio al Paese delle Meraviglie. Nonostante la sua vicinanza con gli USA che ne ha scolorito un po’ i caratteri più tradizionali e loro rende facilmente meta di turisti che fanno la spola tra Cancun, Santo Domingo e la Riviera Romagnola. Il Messico ha un volto nascosto, dietro alle sue spiagge e ai suoi altipiani pieni di sole. È qualcosa che inizi a notare piano piano, qualcosa che ti fa sentire a disagio, ma non capisci pienamente che cos’è. Inizi ad avvertirlo quando il pullman su cui viaggi si ferma a un posto di blocco e fai caso al fatto che, prima di quello, ne abbiamo passati diversi. Militari armati fino ai denti perquisiscono i nostri bagagli con i cani antidroga, ci chiedono i documenti, nessuno fiata. Poi diventa più forte quando arrivi a Tulum e il nostro Airbnb si trova a ridosso dello slam della città: state solo sulle strade grandi, ci avverte la Senora Teresa che ci affitta l’appartamento con piscina che abbiamo prenotato da casa, che quelle piccole sono pericolose.

Abbiamo passato troppo poco tempo in questo Paese perchè io possa scrivere di più quella che è solo una sensazione, supportata da dati statistici tristemente noti. Anche se non abbiamo mai assistito a scene esplicite di violenza nè, per fortuna, ci siamo mai ritrovati a temere per la nostra incolumità, tuttavia, il Messico è tristemente famoso per l’altissimo numero di femminicidi e per il tasso crescente di persone che vivono sotto la soglia di povertà, condizione che nutre le forme di violenza, come la criminalità organizzata e gli omicidi rituali che a questa spesso sono collegati. La violenza scorre sottopelle, la vedi solo se ti avvicini abbastanza. Abbiamo avuto la sensazione che facesse parte della normalità ed è uno degli aspetti della vita con cui i messicani convivono, un po’ come i mosquitos al di là del sottile strato di zanzariera che separa un sonno tranquillo dalla notte impetuosa della giungla appena fuori dalla finestra.